Lavinia Marchetti
Mentre l’Europa discute candidamente (in particolare la redazione di Repubblica che sembra quasi entusiasta dell’ipotesi) di una terza guerra mondiale contro la Russia (cioè un paese con 6.257 testate nucleari), a Gaza l’altroieri (10 settembre 2025) quarantuno persone uccise in un solo giorno dai bombardamenti su Gaza City, tra cui dodici che stavano solo aspettando un pacco di aiuti; ottocentocinquantaseimila spostamenti forzati registrati negli ultimi mesi, famiglie intere costrette a fuggire più volte senza sapere dove andare; scuole trasformate in rifugi che diventano bersagli, come la Al-Farabi colpita il 7 settembre con otto morti, tra cui diversi bambini; ospedali che rifiutano di evacuare i malati perché al sud non c’è più posto, con neonati in incubatrice e pazienti in dialisi che non hanno dove essere trasferiti.
Questa è la realtà che il mondo lascia scivolare sullo sfondo mentre si discute di droni e guerre nucleari.Leggevo ieri sul The Guardian un po’ di quotidianità a Gaza. Mi ha colpita una testimonianza della giornalista Malak Tantesh che racconta con precisione ciò che ormai è divenuto normale: il 9 settembre, mentre a casa si rideva per il compleanno della sorella Enas, volantini israeliani piovevano dal cielo ordinando lo sgombero immediato di Gaza City. La famiglia ha già cambiato rifugio dieci volte dall’inizio della guerra. Ogni ritorno a nord è stato seguito da nuove fughe, fame e lutti.Il padre di Malak ha provato a cercare un rifugio a sud con la sua vecchia bicicletta. Ha visto con i propri occhi le “aree umanitarie” bombardate pochi minuti dopo. Ha sentito i racconti di amici: gemelli di dieci anni uccisi con i genitori, cinque operai di una fattoria colpiti durante il lavoro. Ha capito che non c’è posto che possa chiamarsi rifugio.
Oggi un litro di benzina costa cinquecento shekel, quasi centocinquanta euro. Non ci sono più animali da traino, morti di fame. Le strade sono macerie. La gente sopravvive con una ciotola di lenticchie al giorno. Eppure i volantini continuano a cadere, ordinando un movimento che equivale a deportazione lenta, verso sud, verso tende già strapiene, verso il nulla.
Dopo aver letto di Malak sono tornata ai droni. Mentre a Gaza si muore di fame e di bombe e nessuno si scandalizza più di tanto, in Europa bastano diciannove droni non armati a scatenare summit, proclami e miliardi. Il 10 settembre la Polonia ha intercettato i droni russi “Gerbera”: tre abbattuti da missili NATO, tre caduti da soli nei campi, uno contro una casa di campagna, gli altri spariti. Nessuna vittima. Varsavia ha invocato l’Articolo 4 della NATO, convocato l’ambasciatore russo, parlato di “atto di aggressione”. Mosca ha negato, la Bielorussia ha detto che aveva avvertito i polacchi di droni fuori rotta. Insomma, un episodio grave ma ambiguo, da cui non è partita alcuna escalation militare.Eppure, nel giro di poche ore, i rubinetti si sono aperti: sei miliardi promessi per aumentare la produzione di droni in Ucraina, quarantatré miliardi e settecento milioni del programma SAFE alla Polonia per sistemi antiaerei, artiglieria e difesa elettronica. Et voilà, persone in fila d’attesa per anni a volte per una visita medica e non c’è un euro, ma 19 droni senza carica e i miliardi escono. Da dove escono? Dove sono questi soldi? Chi li ha? C’è qualche economista che può spiegarmelo? A Bruxelles si parla di “Eastern Border Shield”, di muri di droni, di piani titanici. Tutto accompagnato da tweet solenni e conferenze stampa.
DUE MONDI UN UNICO PARADOSSO
Qui sta il punto: due drammi, due misure. A Gaza l’Europa assiste silenziosa a un massacro quotidiano, con milioni di persone ridotte alla fame. In Polonia diciannove droni non armati generano titoli, miliardi, strategie, nuove commesse per le industrie belliche.
Il premier spagnolo Pedro Sánchez lo ha detto apertamente: i doppi standard tra Ucraina e Gaza minano la credibilità dell’Occidente. Ma la macchina corre in una direzione sola. I soldi pubblici vanno a missili, droni e sistemi d’arma, non alla sopravvivenza di chi oggi vive sotto assedio.Così il 2025 ci mostra l’Europa per quella che è: pronta a evocare fantasmi nucleari per giustificare il riarmo, incapace di fermare il genocidio che si consuma in diretta televisiva. Una politica che parla di sicurezza, ma garantisce soprattutto profitti a chi produce armi. E la mia nausea (non so la vostra) sta diventando epocale.Se non altro ci siamo svegliati senza aver sentito di attacchi alla Flotilla…
