La precarietà universitaria e le ragioni della nostra lotta———–di MATILDE CIOLLI e MARCO MELITI
Dallo scorso autunno le mobilitazioni delle Assemblee Precarie Universitarie mostrano l’urgenza di fare dell’università un terreno di lotta. A innescarle è stata la proposta di riforma Bernini del preruolo – attualmente sospesa, ma non ritirata – accompagnata da tagli netti per i prossimi tre anni al Fondo di Finanziamento Ordinario della ricerca, che si sommano all’imminente esaurimento dei fondi PNRR.
All’assemblea nazionale che si è tenuta l’8 e il 9 febbraio a Bologna, oltre quattrocento precarie e precari da tutta Italia hanno scommesso sullo sciopero come strumento per esprimere il rifiuto collettivo di “tagli, guerra e precarietà” e sulla sua costruzione come sfida politica e organizzativa dei prossimi mesi.Facciamo nostra questa sfida in tutta la sua complessità, riconoscendo la necessità di un esercizio collettivo di immaginazione politica per pensare e praticare uno sciopero dell’università che, a partire dalle condizioni di lavoro dei precari e delle precarie, apra spazi effettivi di mobilitazione, di lotta e di comunicazione politica tra figure in condizioni lavorative e di vita diverse.
Le ragioni della nostra lotta
L’università contro la quale lottiamo è una fabbrica di precarietà, dove la ricerca e il sapere prodotti sono ormai inseparabili dagli indirizzi politici e di mercato che li commissionano. Le attuali misure del governo sono tappe di una trasformazione trentennale che ha progressivamente ridefinito le gerarchie interne agli atenei, ha imposto controlli dei risultati accademici come forma di comando sul tempo e sul lavoro di chi fa ricerca e didattica e ha lasciato entrare investitori e stakeholders privati nella governance universitaria definendo spesso indirizzi e obiettivi della ricerca.
In questo quadro la riforma Bernini punta a rendere irreversibile la precarietà nel percorso post-dottorale non soltanto per scaricare i costi dei tagli sulle condizioni di lavoro di ricercatori e ricercatrici, ma anche per incentivare ulteriormente lo spostamento dei piani di finanziamento verso fondi esterni competitivi e a progetto, privati, nazionali oppure europei.Per questo, sebbene si chiami «riforma del preruolo», la verità è che il ruolo potrà non arrivare mai perché è la stessa forma a progetto della ricerca che richiede una forza lavoro precaria e disponibile all’occorrenza. A differenza della precedente riforma Draghi che aveva introdotto il contratto di ricerca, quella di Bernini si premura di rispondere alle richieste dei rettori lasciando loro uno spazio di manovra ampio per poter scegliere, di volta in volta, il livello di contratto precario più congeniale alle esigenze di budget. In questo modo si approfondisce il processo aperto con i fondi PNRR e la “ricostruzione post-pandemica”, che hanno definito le condizioni in cui oggi naviga chiunque faccia ricerca in università, mentre si fa scoppiare la bolla di lavoro precario a progetto che quei fondi hanno contribuito a gonfiare.
La lotta che portiamo avanti contro riforma e tagli, dunque, non può essere né nostalgica né difensiva, perché c’è ben poco da difendere nell’università di oggi, o da rimpiangere in quella di ieri. I ricercatori e le ricercatrici che in questi mesi hanno preso parola dentro le assemblee e le mobilitazioni hanno denunciato una ricerca già definitivamente piegata agli imperativi della committenza e dei progetti a termine, irregimentata in logiche di competizione, merito e flessibilità. Chi fa ricerca oggi è tenuto a cambiare continuamente l’oggetto dei propri studi. Strutturati e non strutturati possono dedicare alla ricerca solo il tempo che non è eroso dalle necessità burocratiche di rendicontazione, di misurazione della produttività e di scrittura di nuovi progetti.
L’innovazione – che pure è tra le parole d’ordine della progettazione scientifica competitiva – è ridotta a soluzione di problemi specifici, da condurre attraverso linguaggi, metodi e destinations predeterminate, dentro processi in cui i singoli sono responsabili al più di un frammento di cui non conoscono le finalità né gli obiettivi complessivi. In questo modo ricercatori e ricercatrici, fin dal dottorato, svolgono un lavoro orientato alla produzione e trasmissione di un sapere professionale-imprenditoriale piegato alla ricerca di fondi per conto degli atenei, oppure sono chiamati a intervenire direttamente nei processi produttivi e dell’amministrazione pubblica o di impresa, o ancora a formarsi come figure tecnico-gestionali con “competenze trasversali” che tornano utili nei salti da un progetto all’altro.
Mentre ancora gli atenei provano, con un marketing stantio, a vendersi come istituzioni capaci di “cambiare la vita” o di meritare bollini “rosa” o “verdi”, la realtà è quella di un’istituzione che riproduce la società dentro cui è collocata, colpendo chi non mostra piena disponibilità o possibilità di competere e meritare. Studentesse e studenti sono costretti a una corsa a ostacoli per l’acquisizione di crediti formativi da cui dipendono alloggi e borse di studio, in cambio di una formazione ridotta a trasmissione di competenze e informazioni standardizzate che le/li prepara a un mercato del lavoro precario e povero. Chi studia o fa ricerca con un permesso di soggiorno in tasca è doppiamente ricattabile, perché costretto ad avere un contratto e affrontare lunghe trafile burocratiche per avere i documenti e rimanere in Italia, con la prospettiva di essere rispedito a casa una volta finito il suo compito.
Per le donne che fanno ricerca la precarietà vuol dire maggiore ricattabilità data da una società patriarcale dove guadagnano di meno e sono esposte, in università e nei luoghi di lavoro, a molestie e violenze. Basta uno sguardo superficiale alle stesse statistiche dei bilanci di genere degli atenei per vedere che per le dottorande, le ricercatrici e le docenti la possibilità di lavorare in accademia rimane fortemente condizionata dalla scelta di avere figli, dai carichi di lavoro riproduttivo e dalla disponibilità ad accettare le posizioni di lavoro più precarie e povere.
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