Gaza: fame programmata, genocidio deliberato

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Gaza: fame programmata, genocidio deliberato

Silvana Sale

Gaza: fame programmata, genocidio deliberato.

Nel cuore del XXI secolo, mentre il mondo siede davanti a schermi e conferenze diplomatiche, mentre si celebrano parole come “diritti umani”, “protezione dei civili”, “aiuti umanitari”, esiste un luogo dove tutto questo è svuotato di significato. Quel luogo è Gaza. Un territorio di due milioni di anime, stretto tra le bombe e la fame, dove la morte non arriva soltanto dal cielo, ma anche, e soprattutto,da un crimine più silenzioso, più lento, più crudele: la fame usata come arma di sterminio.

A Gaza non si muore solo sotto le macerie. Si muore perché si è deliberatamente lasciati senza acqua, senza cibo, senza medicine. Si muore di sete, di stenti, di infezioni curabili, si muore con lo stomaco vuoto e il corpo che cede. Si muore mentre il mondo guarda altrove.

Israele ha trasformato l’intero territorio in una prigione disumana, bloccando gli accessi agli aiuti umanitari, bombardando ospedali, scuole, panifici, acquedotti, e impedendo ogni forma di soccorso organizzato. Ogni camion che tenta di entrare con farina o insulina viene fermato, ispezionato, trattenuto, respinto. E anche quando gli aiuti sono stati approvati dalle Nazioni Unite o da organizzazioni internazionali, Israele li ostacola o li rallenta con la scusa della “sicurezza”. Ma nessuna sicurezza giustifica la morte lenta di un neonato. Nessun pretesto strategico può assolvere chi lascia morire civili di fame e sete. Nessuna ragione militare, in nessun angolo del mondo, potrà mai rendere accettabile la fame come metodo di punizione collettiva.La fame non è un effetto collaterale, è un piano. È un’arma. È una scelta. E il popolo di Gaza ne è vittima ogni giorno.

Oltre il 93% dei bambini è a rischio carestia estrema. Più di un milione di minori si trova in stato di malnutrizione grave. Neonati con la pelle incollata alle ossa. Madri troppo denutrite per produrre latte. Anziani che non si alzano più dal letto perché non hanno più forze. Persone che bollono acqua di mare o foglie per ingannare la fame. Ospedali che rimandano i pazienti perché non hanno medicine, né elettricità, né medici vivi. Tutto questo non è una crisi. È un genocidio a sangue freddo.

Le testimonianze che giungono dai campi profughi e dagli ospedali ridotti in rovina sono un pugno allo stomaco, un grido che lacera la coscienza.

“Mio figlio ha pianto tutta la notte dalla fame. Poi ha smesso. È morto quattro giorni dopo.” Queste sono le parole della madre del piccolo Anwar Al-Khudari, morto senza aver mai conosciuto un pasto intero. “Ho visto il mio bambino diventare uno scheletro. Non riesce più a stare seduto. Non mangiamo da tre giorni.” Così racconta Hanan Assaf, madre di Khaled, altro piccolo martire del digiuno forzato.

Il dottor Jamal Imam, medico di Save the Children, descrive il caso di Amjad, un bambino di meno di un anno ridotto a meno di sei chili, figlio di una madre talmente debilitata da non poterlo più nutrire nemmeno con il suo latte: “Lo teneva in braccio mentre lui si spegneva”. Yahya, zio di un altro bambino morto, dice: “Moriremo tutti, prima o poi. Ma morire così… di fame… non è umano.”.Ed è proprio questo il punto. Non è umano. Ciò che sta facendo Israele a Gaza non è mai stata un operazione di difesa. Non è nemmeno una guerra convenzionale. È solo la lenta eliminazione di un popolo attraverso la distruzione sistematica di ogni condizione necessaria alla vita. È la negazione dell’acqua, del cibo, della cura, della dignità. È la trasformazione della fame in una sentenza di morte. Ed è un crimine. Un crimine documentato, evidente, deliberato. Un crimine che ha un nome: genocidio.

Organizzazioni come Amnesty International, Human Rights Watch, Save the Children, la Croce Rossa, l’UNICEF e perfino l’ONU hanno parlato senza mezzi termini, a Gaza si sta usando la fame come arma di guerra. La Corte Internazionale di Giustizia ha emesso ordini vincolanti a Israele per permettere il passaggio immediato degli aiuti. Ordini ignorati. Secondo l’agenzia AP News, oltre 1.000 palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane solo tra maggio e luglio 2025 mentre cercavano disperatamente cibo presso punti di distribuzione. Più di 80 bambini sono morti di fame e disidratazione soltanto nell’ultima settimana. Medici dell’ospedale Kamal Adwan riferiscono di decine di casi giornalieri di malnutrizione acuta, infezioni, blocchi renali e arresti cardiaci provocati dalla mancanza di nutrimento.Molti civili, disarmati e affamati, sono stati colpiti mentre facevano la fila per una tanica d’acqua, o mentre cercavano di prendere un sacco di riso lanciato da un drone umanitario. Questi non sono incidenti. Sono esecuzioni. Non possono parlare di “danni collaterali”o falsamente di “effetti secondari del conflitto” per tentare di giusfificare questi crimini.

La fame a Gaza è il risultato di una politica precisa, voluta, difesa e ripetutamente messa in atto nonostante l’intero pianeta ne conosca le conseguenze. Israele sta lasciando morire la gente di fame, consapevolmente. E chi tace, chi giustifica, chi guarda altrove, è complice.Così come il nostro governo italiano.Ciò che provoca più ribrezzo non è solo la quantità di morte. È la disumanità sistemica con cui essa viene prodotta. È il fatto che si muoia di fame nel 2025, sotto gli occhi del mondo, mentre camion pieni di viveri restano bloccati al confine. È il fatto che si bombardi chi cerca di distribuire farina. Che si uccida chi tenta di sopravvivere. Che si silenzi chi prova a denunciare. La fame come arma è tra i più infami crimini di guerra che l’umanità possa concepire. È invisibile, lenta, ma letale. Non lascia ferite esterne. Ma uccide dentro. E Gaza ne è la prova vivente, o meglio, la prova morente.Ogni giorno che passa senza aiuti, senza corridoi umanitari, senza condanne efficaci, è una complicità. Ogni parola che non si dice è una pietra su una fossa comune. Ogni bambino che muore per fame è una sconfitta non solo per il diritto internazionale, ma per tutta la coscienza umana. E mentre il mondo discute, media, analizza, rifiuta di definire ciò che accade con il suo vero nome, Gaza muore. Un morire senza sangue, ma non per questo meno atroce.La verità è scritta nei corpi svuotati dei neonati, nei ventri vuoti delle madri, nei silenzi delle ambulanze vuote, nei pianti sommessi di chi resta. Questa non è guerra. Questa è disumanità pura. Questa è un’epurazione per fame. Questa è barbarie pianificata.E noi, tutti noi, non possiamo dire di non sapere.Come non si è potuto dire di non sapere, allora, davanti ai forni e ai lager del nazismo, oggi non si può restare in silenzio mentre Gaza diventa un campo di concentramento a cielo aperto. Lì si spegnevano vite con la brutalità della macchina della morte, qui si cancellano con l’indifferenza, con il blocco dei camion, con il silenzio delle istituzioni. Ma la logica è la stessa, distruggere un popolo negandogli il diritto di esistere. E ogni giorno in cui restiamo inermi davanti a questo orrore, ripetiamo la storia che avevamo giurato di non rivivere mai più.

C’è qualcosa di atrocemente paradossale e moralmente sconvolgente nel fatto che proprio uno Stato nato sulle ceneri della Shoah, fondato per proteggere un popolo sopravvissuto allo sterminio e alla disumanizzazione, oggi infligga ad un altro popolo,i palestinesi, un destino che riecheggia gli stessi meccanismi di oppressione, isolamento, fame e annientamento.E sia chiaro, non è l’intero popolo ebraico, né la memoria dei suoi martiri, né l’identità di una religione millenaria che noi chiamiamo in causa e denunciamo fortemente.A compiere questi atti disumani è una macchina di potere sionista, coloniale, armata, che ha fatto del razzismo di Stato, della segregazione, dell’occupazione e della fame strumenti sistematici di dominio.Sono i sionisti al potere in Israele, non gli ebrei in quanto tali, ad aver trasformato Gaza in un campo di sterminio moderno. Sono loro a tradire, giorno dopo giorno, proprio quella memoria della Shoah che affermano di onorare. Perché chi ha conosciuto l’abisso dell’annientamento non dovrebbe mai, in nessun tempo, in nessun luogo, infliggerlo ad altri.

“Mai più”, abbiamo detto. E invece, ancora.

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