Alfredo Facchini
In acque internazionali vige una legge semplice: libertà di navigazione.
Nessuno Stato può imporre la propria forza oltre le dodici miglia nautiche dalla costa. È scritto nella Convenzione ONU sul Diritto del Mare. Ogni nave che solca il mare aperto risponde esclusivamente alle leggi dello Stato di bandiera: se batte bandiera norvegese obbedisce alle leggi dei fiordi; quella che mostra l’orgoglio spagnolo risponde alle leggi della penisola iberica. Chiunque altro la fermi o la abbordi senza mandato ONU compie un atto ostile e illegale.
La Global Sumud Flotilla non porta ferro né fuoco. Le sue stive custodiscono aiuti umanitari e un messaggio che risuona più forte di qualsiasi cannone: il blocco di Gaza è un’aberrazione.
Israele lo sa, e reagirà come ha sempre reagito: con la forza bruta. Non importa se la flottiglia navighi in alto mare, dove il diritto internazionale la tutela. Non importa se a bordo ci siano attivisti civili, parlamentari, figure pubbliche. Verranno fermati. Verranno sequestrati. Verranno portati a terra con prepotenza. È già successo. La storia si è già scritta in queste acque.
Quello che conta, allora, non è solo arrivare a destinazione. È mostrare al mondo la violenza nuda del blocco, il silenzio complice delle istituzioni internazionali, l’arroganza di uno Stato che pretende di decidere chi può respirare e chi no.
Gli Stati, se davvero volessero, potrebbero impedire questo sopruso?Sì. Scortando le navi civili con unità navali. Imponendo al Consiglio di Sicurezza una risoluzione contro il blocco. Proteggendo diplomaticamente le proprie bandiere. Potrebbero imporre sanzioni che mordano, che facciano sentire il peso dell’isolamento internazionale. Trascinando il caso davanti alla Corte Internazionale di Giustizia.
Gli strumenti esistono, forgiati dai trattati e temperati dalla giurisprudenza internazionale. Ciò che manca è la volontà politica: quella che si piega al ricatto israeliano, che preferisce chiudere gli occhi, che sceglie la codardia al posto della giustizia.Ogni volta che una nave civile viene sequestrata, ogni volta che un carico umanitario viene confiscato, ogni volta che un attivista viene trascinato con la forza nei porti israeliani, la responsabilità non è solo di Tel Aviv. È anche di chi osserva in silenzio.
C’è la firma di Washington. L’avallo di Bruxelles. E l’ignavia di Roma, Parigi, Berlino. È l’intera architettura occidentale che si inchina a un regime coloniale, permettendo che il mare diventi prigione, che il diritto si trasformi in carta straccia, che la vita di due milioni di persone a Gaza sia sacrificabile.

