Sfatato un tabù: per Marx non siamo tutti “uguali”(“da ciascuno secondo le proprie capacità, a ciascuno secondo i propri bisogni”)

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Sfatato un tabù: per Marx non siamo tutti “uguali”(“da ciascuno secondo le proprie capacità, a ciascuno secondo i propri bisogni”)

ma.bu.

Il grande Karl Marx nella sua “Critica del programma di Gotha”, denunciava il potere del merito ma non in nome di un egualitarismo livellatore. Marx infatti riconosceva le differenze naturali, ma sosteneva che fosse necessario che sulle diverse capacità di rendimento ad esse connesse non si formassero privilegi sociali. Una delle sue frasi più celebri si trova proprio nella “Critica del programma di Gotha (1875): “da ciascuno secondo le proprie capacità, a ciascuno secondo i propri bisogni”.

Nell’opera citata il padre del materialismo storico e del socialismo scientifico interviene sulla questione “capacitaria”, cioè sulla capacità come criterio universale di un ordine che favorisca il merito. In questo testo critica il programma lassalliano anche perché esso, puntando sull’uguaglianza delle retribuzioni in proporzione del lavoro effettuato, manteneva la prospettiva socialista in un orizzonte legato alla logica borghese. Si trattava infatti – per Marx – di un’idea di eguaglianza di tipo formalistico, dato che la produzione in tal modo dipendeva non solo dal lavoro ma anche dalla “natura” e cioè dalle doti personali innate e poi dalle condizioni materiali come ad esempio l’essere o no sposato. In tal caso, insomma, l’eguaglianza avrebbe portato alla diseguaglianza e come sosteneva lo stesso Lenin in “Stato e rivoluzione”, per evitare tale situazione era necessario applicare un diritto di tipo “diseguale” (Salvatore Cingari,”Marx critico della meritocrazia” in Micropolis).

Scriveva Marx a proposto della “giusta” retribuzione basata sulla prestazione:”l’eguale diritto è qui perciò ancora sempre (…) il diritto borghese (..) l’uno è fisicamente o moralmente superiore all’altro, e fornisce quindi nello stesso tempo più lavoro, oppure può lavorare durante un tempo più lungo; e il lavoro, per servire come misura, dev’essere determinato secondo la durata o l’intensità, altrimenti cesserebbe di essere misura. Questo diritto uguale è un diritto diseguale per lavoro diseguale. Esso non riconosce nessuna distinzione di classe, perché ognuno è soltanto operaio come tutti gli altri, ma riconosce tacitamente la ineguale attitudine individuale, e quindi capacità di rendimento, come privilegi naturali. Esso è perciò, pel suo contenuto, un diritto della diseguaglianza, come ogni diritto. Il diritto può consistere soltanto, per sua natura, nell’applicazione di una uguale misura; ma gli individui disuguali (e non sarebbero individui diversi se non fossero diseguali) sono misurabili con uguale misura solo in quanto vengono sottomessi a un uguale punto di vista, in quanto vengono considerati soltanto secondo un lato determinato: per esempio, nel caso dato, soltanto come operai, e si vede in loro soltanto questo, prescindendo da ogni altra cosa. Inoltre: un operaio è ammogliato, l’altro no; uno ha più figli dell’altro, ecc. ecc. Supposti uguali il rendimento e quindi la partecipazione al fondo di consumo sociale, l’uno riceve dunque più dell’altro, l’uno è più ricco dell’altro e così via. Per evitare questi inconvenienti, il diritto invece di essere uguale, dovrebbe essere diseguale. Ma questi inconvenienti sono inevitabili nella prima fase della società comunista, quale è uscita, dopo i lunghi travagli del parto, dalla società capitalistica. Il diritto non può essere mai più elevato della configurazione economica e dello sviluppo culturale, da essa condizionato, della società”.

Il fine del pensatore di Treviri era quello di mostrare come il problema dello sfruttamento non si sarebbe potuto superare con astratte formule egualitarie e di giustizia, bensì prima applicando un diritto “diseguale” (in qualche misura realizzato nel Novecento con la progressività fiscale e il Welfare) e poi – definitivamente – superando il vigente sistema di produzione, di modo che le questioni della giustizia sociale e dell’uguaglianza non si sarebbero neppure poste, anche per via della condizione di abbondanza che avrebbe caratterizzato un sistema in cui i rapporti di produzione avessero superato le proprie contraddizioni. Va inoltre rilevato come a maggior ragione Marx fosse contrario all’idea dell’uguaglianza come livellamento, dato che nel comunismo compiuto da lui prefigurato, un libero sviluppo di tutti sarebbe stata la condizione del libero sviluppo di ognuno.

“In una fase più elevata della società comunista – scrive Marx – dopo che è scomparsa la subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto tra lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!”

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