Nel dibattito acceso che sta accompagnando la nuova riforma della giustizia, un elemento appare sempre più evidente: l’obiettivo non è solo “modernizzare il sistema”, come ripete il governo, ma colpire la magistratura, limitarne l’autonomia, ridurne la capacità d’azione. È questo il filo rosso che percorre i diversi interventi normativi presentati nelle ultime settimane, e che sta suscitando allarme non solo tra i magistrati, ma anche tra costituzionalisti ed ex garanti delle istituzioni.
A ben vedere, la narrativa ufficiale si regge su un paradosso: si afferma di voler rendere la giustizia più “rapida ed efficiente”, ma molte delle misure introdotte non hanno alcun impatto sui tempi dei processi o sulla qualità del servizio al cittadino. Al contrario, sembrano costruite per **intimidire** chi esercita la giurisdizione, controllarne le scelte, limitarne la libertà interpretativa. La separazione delle carriere, la stretta sulle valutazioni professionali, la ridefinizione del ruolo del CSM e persino l’inasprimento delle responsabilità disciplinari: tutti tasselli che, letti insieme, mostrano un disegno coerente e inquietante.
Il punto centrale è proprio questo: la riforma interviene là dove la Costituzione aveva previsto anticorpi contro il potere politico. L’indipendenza della magistratura serve a garantire che ogni cittadino, anche il più debole, possa essere giudicato da un organo libero da pressioni esterne. Ma purtroppo il messaggio che arriva dal governo è chiaro: ridurre quello spazio di autonomia, ricondurre la magistratura in un recinto più stretto, più controllabile.L’inserimento di nuovi criteri di valutazione, spesso vaghi e potenzialmente usabili in modo strumentale, rischia di trasformare l’attività del giudice in un esercizio sotto sorveglianza. L’aumento della responsabilità disciplinare, presentato come esigenza di “trasparenza”, può diventare uno strumento per punire chi non si conforma alle aspettative del potere esecutivo. E la separazione delle carriere – obiettivo storico delle forze politiche più critiche verso il ruolo della magistratura – apre a un modello in cui il pubblico ministero rischia di essere schiacciato su logiche gerarchiche più vicine alla politica che alla giurisdizione.
Tutto questo avviene in un contesto in cui la delegittimazione dei magistrati è diventata discorso pubblico quotidiano. Da anni si ripetono accuse generiche di “politicizzazione”, senza però riconoscere che a politicizzare la giustizia è proprio chi cerca di metterle il guinzaglio. L’idea che la magistratura debba essere punita per le sue inchieste più scomode, o per decisioni sgradite al governo, si sta insinuando nel dibattito politico come fosse un principio di buon senso. Ma non lo è: è una minaccia diretta allo Stato di diritto.C’è poi un’altra conseguenza spesso ignorata: una magistratura intimidita, sotto pressione, più controllata, sarà inevitabilmente **meno coraggiosa**. Meno incline a indagare sui poteri forti, meno disposta a esercitare fino in fondo il proprio ruolo di controllo di legalità. Una giustizia timorosa è una giustizia più debole. E una democrazia che indebolisce la giustizia si espone a rischi ben più profondi di quelli che dice di voler prevenire.
La riforma, insomma, non nasce per risolvere ritardi o inefficienze croniche. Nasce da una logica punitiva, quasi ritorsiva: quella di ridimensionare un potere che, nel corso degli anni, ha osato toccare interessi sensibili e svelare opacità che la politica preferirebbe lasciare nell’ombra. Più che una modernizzazione del sistema, appare come un **regolamento di conti**.A questo punto, la domanda non è più se la riforma migliorerà la giustizia — perché difficilmente lo farà — ma quale sarà il prezzo istituzionale della sua approvazione. Se l’obiettivo reale è punire e intimidire, il risultato sarà un Paese meno libero, meno trasparente, meno tutelato. E una democrazia che sceglie di indebolire chi garantisce la legalità finisce sempre, prima o poi, per indebolire sé stessa.
Aurelio Tarquini
Nella foto: una vignetta di Andrea Sillioni

