Luciano Graziuso
Lo scorso 16 dicembre all’aeroporto di Malpensa, su diktat degli Stati Uniti, era stato arrestato e incarcerato l’ingegnere iraniano Mohammed Abedini, in base ad un mandato d’arresto “internazionale” che solo poche voci dell’informazione nostrana hanno giustamente definito “americano” (nel senso di “statunitense”) e a cui il nostro Paese ha ritenuto di ubbidire subito.
E’ facile intuire che si sia trattato di un fatto di estrema gravità, per vari motivi; soprattutto se si pensa che sia l’Italia che gli Stati Uniti affermano a gran voce di essere due Stati liberali e democratici: in primis perché il governo Meloni, che non perde occasione (anche contro ogni evidenza) di autodefinirsi “sovranista”, si è inchinato ad un ordine proveniente da un’altra nazione; in secondo luogo poichè l’esecutivo, rinchiudendo in cella un libero cittadino senza alcuna prova a suo carico e senza tanto meno formulare contro di lui una vera e propria accusa, ci ha esposti ad una figuraccia a livello internazionale. In tutto questo, ovviamente, la stragrande maggioranza dei nostri mezzi d’informazione, sempre più asserviti, ha contribuito a farci perdere ulteriormente la faccia, definendo con spregio il povero ingegnere iraniano “l’uomo dei droni” nella versione più “soft” e nella maggior parte dei casi addirittura “terrorista”.
Sorprende la mancanza, fin dal primo apparire della notizia, di voci dissonanti rispetto alla deprecabile decisione ( di chi? Del governo? Del ministro della Giustizia? Della Procura di Milano? In verità non lo si sa ancora e desidereremmo tanto saperlo…) di mettere in galera un uomo senza prove di reato in uno stato di diritto. Infatti, in base a questa prassi, in base a tale criterio, potremmo/dovremmo arrestare tutti gli ingegneri con evidenti capacità progettuali di questo tipo che servono il loro Paese e di cui il loro Paese ha bisogno, ivi compresi gli stessi statunitensi. Colpisce inoltre la generale mancanza di solidarietà per il singolo; ci viene da pensare che se si fosse trattato di un ingegnere di un’altra qualunque nazione occidentale ci sarebbe stata una levata di scudi generalizzata o quantomeno un’espressione di sentimenti di solidarietà.
Tre giorni dopo l’arresto di Abedini, vale a dire il 19 dicembre 2024, era stata imprigionata in Iran, altrettanto ingiustamente, la giornalista italiana Cecilia Sala, anche in questo caso senza prove specifiche di colpevolezza a suo carico; l’accusa mossale era, infatti, estremamente generica, in quanto le veniva vagamente contestato di aver “violato le leggi della Repubblica islamica e dell’Iran”. I giornali, fin da subito, avevano correttamente messo in risalto l’abuso perpetrato dallo stato asiatico nei confronti della nostra connazionale ed avevano rimarcato la gravità dell’immotivato arresto di una persona innocente, “dimenticandosi”, però, di fare altrettanto nei confronti dell’ingegnere iraniano, anch’egli innocente fino a prova contraria, tanto più in quanto a proposito di quest’ultimo cominciava a trapelare la vera natura del suo mandato d’arresto: “americano” e non “internazionale”. Per tutti i giorni seguenti si continuava a parlare solo della Sala: delle sofferenze patite in carcere, delle limitazioni alla libertà subite ed addirittura della sua vita in generale, ma nulla, al contrario, veniva detto di Abedini, al netto ovviamente delle cose negative già riportate sopra, nonostante pure lui si trovasse in galera senza aver fatto niente di male ed anch’egli avesse vissuto una vita di cui magari sarebbe stato piacevole, per alcuni lettori, venire a conoscenza. Ma d’altronde questa prassi è “normale” anche in altri contesti, come quello mediorientale, dove delle vittime israeliane si sa nome, età, lavoro, storie di vita e vicenda, mentre di quelle palestinesi non si sa nulla; queste ultime annegano nell’anonimato di una massa enorme di morti, che ora hanno raggiunto i 70.000. Naturalmente non si può non pensare ad una pratica miope e becera dei due pesi e delle due misure, perché non è possibile che degli almeno 45.000 bambini martoriati e uccisi a Gaza noi non sappiamo neanche un nome, una storia, un aneddoto che sia rimasto nella nostra memoria: ciò serve, ovviamente, a ridimensionare la portata di una immane carneficina, dalle cifre apocalittiche, di fronte a tragedie dall’altra parte, indubbiamente di tono minore.
Alla fine della storia, entrambi i prigionieri sono stati giustamente liberati, il governo italiano ha esultato, la premier Meloni ha potuto di nuovo auto-attribuirsi il merito della soluzione positiva del problema, come sempre fa, non tutto è stato chiaro e messo alla luce del sole, ma ciò può essere anche comprensibile in un caso delicato come questo; molti retroscena sono stati oggetto di illazioni e/o ipotesi più o meno credibili…Fatto sta che per una volta almeno hanno avuto ragione i “complottisti”, quelli cioè che sapevano fin dal primo momento che alla liberazione della Sala sarebbe indubbiamente seguita quella di Abedini e che l’Iran non sarebbe stato a guardare il ghigno soddisfatto degli Usa, che infatti non c’è stato. In conclusione, nonostante la maggioranza dei nostri mezzi d’informazione abbia fatto apparire la premier come l’unica “vincitrice” della vicenda, a noi sembra che da quest’ultima sia uscita bene anche la Repubblica islamica, che ha ottenuto il rilascio del proprio ingegnere ed ha quindi fatto valere i propri diritti.
